Economia e Potere

Il silenzio, la morte

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view post Posted on 16/3/2013, 15:12     +1   -1
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Nel frattempo il principe Andrea giaceva sempre nello stesso posto, sulle colline di Pratzen, stringendo nelle sue mani un pezzo di asta della bandiera, perdendo sangue ed emettendo, senza rendersene conto, dei gemiti deboli e lamentosi come quelli di un bambino.
Verso sera i gemiti cessarono: aveva perso conoscenza. Improvvisamente riaprì gli occhi, non rendendosi conto del tempo passato, e sentendosi di nuovo vivo, e sofferente, per una ferita bruciante alla testa:
“Dov’è quel cielo infinito che ho visto questa mattina e che prima non conoscevo?” fu il suo primo pensiero. “...e queste sofferenze, anch’esse mi erano ignote! Sì, non sapevo niente, finora. Ma dove sono?”
Tese l’orecchio e avvertì il rumore di diversi cavalli e di voci che si avvicinavano. Parlavano francese. Non girò la testa. Guardava sempre questo cielo così alto sopra di lui, il cui azzurro insondabile traspariva dalle nubi leggere.
I cavalieri erano Napoleone e due aiutanti di campo. Bonaparte aveva fatto il giro del campo di battaglia e impartito ordini per rinforzare le batterie puntate sulla diga di Auguest; ora esaminava i feriti e i morti abbandonati sul terreno.
“Che begli uomini!” disse, vedendo un granatiere russo, steso sul ventre, faccia a terra, con la nuca annerita e le braccia già irrigidite dalla morte.
“Le munizioni dei pezzi in posizione sono terminate, sire!” disse un aiutante di campo, spedito dalle batterie che mitragliavano Auguest.
“Fate avanzare quelle della riserva” rispose Napoleone allontanandosi di qualche passo e fermandosi accanto al principe Andrea, che stringeva sempre l’asta mutilata, la cui bandiera era stata presa dai Francesi come trofeo.
“Che bella morte!”, disse Napoleone.
Il principe Andrea capì che si trattava di lui, e che era Napoleone a parlare; ma queste parole ronzavano alle sue orecchie senza presentare il minimo interesse, e le dimenticò subito. La sua testa bruciava, le sue forze se ne andavano col suo sangue, e non vedeva davanti a sé che quel cielo lontano ed eterno. Aveva riconosciuto Napoleone – il suo eroe; ma in questo momento questo eroe gli sembrava così piccolo, così insignificante a confronto di quanto stava accadendo fra la sua anima e quel cielo senza limiti! Quanto dicevano, chi si era fermato vicino a lui, tutto gli era indifferente, ma era contento si fossero fermati; sentiva confusamente che lo avrebbero aiutato a rientrare in questa esistenza che trovava così bella, da quando l’aveva vista diversamente. Raccolse tutte le sue forze per fare un movimento e articolare un suono; mosse un piede e emise un debole gemito.
“Ah! Non è morto?” disse Napoleone. “Che si raccolga questo giovane, e lo si porti all’ambulanza!”
E l’imperatore andò incontro al maresciallo Lannes che, sorridendo, si scoprì il capo e lo felicitò della vittoria.


Bloccato dalla tormenta, questa mattina pensavo di approfittarne per portare alla madre delle sante i saluti di Correttore di Bozzi, come promesso su Twitter. Esco a Solférino, e mi cade l’occhio su una giovane orientale, estremamente upper class ed estremamente indecisa. Un attimo, cerca il mio sguardo, io capisco e benignamente interloquisco:
“Are you looking for the Musée d’Orsay?”
“Yes.”
“It is near the river, over there... Look, there is a brown indicator...”
“I can’t see it...”
“Follow me, I am going to the Museum too.”
Traversiamo il bd. St. Germain, la metto sulla strada.
“Where are you from?”
“Korea. And you?”
“Italy. But I will not bother you any longer: there is nothing better than being alone in Paris. Have a nice day”.
Lasciando la splendida emergente al suo destino predeterminato di turista upper class, con un gesto che Simone Previti certamente mi rimprovererà, allungo il passo e mi allontano con la testa fra le nuvole, come si conviene a un nano seduto sulle spalle di giganti, tenendo però lo sguardo ben fisso a terra, per evitare le insidie del ghiaccio. I sagittari, si sa, sono uomini sopra e cavalli sotto, cosa che, come ognuno vede, torna utile in certe circostanze, in particolare quando venti centimetri di neve e una bella gelata notturna rendono utile avere quattro punti di appoggio. Sbuco davanti al Musée d’Orsay, e capisco at once che non è cosa: una fila di giovani virgulte dell’agro redento impreziosisce della sua presenza la non trascurabile fila d’attesa. Ora, capite che se uno vuole stare coi suoi pensieri, la calligrafica coreana non va bene, ma le garrule Jessica e Samantha vanno ancora peggio, quindi giro i tacchi e torno verso il boulevard.

Inevitabilmente incontro la giovane emergente, che avanza con passo incerto (Parini avrebbe detto lubrico) sul verglas e mi guarda interdetta. La rassicuro: la direzione è giusta, ma “just too many people for me. Have fun”.
La decisione è presto presa: quello che ha afferrato la bandiera deve restituire la visita a quello a cavallo. Solo che ora è quello a cavallo a essere steso...
Prendo la rue St. Dominique, entro sotto la cupola dorata, dove non ero mai stato. E mentre faccio due o tre vasche nella cripta, intorno al sarcofago di porfido rosso (o forse era granito, lo chiediamo a Giorgio il precisazionista), mi vengono in mente tante cose, penso a come Hugo racconta la cerimonia del rimpatrio delle spoglie, penso a quella battaglia e a quella vittoria, e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei...
Ecco...
Il suono...
O anche il rumore, il noise...
Quanto chiacchiericcio, ci dicevamo ieri con Alessandro su Twitter. E quanto rumore.
La decisione di aprire questo blog ha avuto un effetto che, per quanto prevedibile e inevitabile, non era certo parte delle mie intenzioni: quello di essere bombardato di informazioni. Dal “guardachestasuccedendolì”, al “guardaquellocosahadettodite”, al “professorechennepenza”. Ho dovuto fare quello che mi ero sempre rifiutato di fare, essendo forse più economista di quanto io stesso non creda: ammettere l’esistenza della realtà! Certo, quando ho lanciato il mio Mont Joye Saint Denis (non è un formaggio, lo dico per i diversamente acculturati), assaltando all’arma bianca la cavalleria pesante dei baroni piddini, non potevo aspettarmi di restare nell’ombra.
Ma non pensavo che sarei cambiato così tanto.
Non mi riconosco più!
Sono ancora io? Sono veramente io? Sono sempre io me? Quello che all’esame di Economia Politica I, richiesto dal prof. Tenenbaum di dare non so più quale ordine di grandezza di una variabile macroeconomica (non so, forse il rapporto debito/Pil) rispose che non ne aveva alcuna idea? E il prof. Tenenbaum, un po’ seccato: “Ma insomma, Bagnai, queste sono cose che si leggono su tutti i giornali”. E io, asciutto: “Mi dispiace, professore, ma a me l’attualità non interessa”. “Ventisei”.
Dal che capirete che anche in posizione di debolezza, mai ho rinunciato al sacro principio toscano: “Meglio perdere un amico che una buona risposta”. D’altra parte, anche molti miei studenti, se avessero coraggio, potrebbero rispondermi la stessa cosa, e io lo apprezzerei, ma ci sarebbe pur sempre una differenza: a me non interessava il mondo nel quale vivevo, ma vivevo in un mondo che mi interessava, il mondo che sto oggi usando per aiutarvi a capire in quale mondo viviamo. Se non avessi vissuto nel mondo dei libri senza figure, la mia parola non sarebbe altrettanto efficace.
Per i miei studenti, ahimè, i libri senza figure restano un hic sunt leones, e la mia sensazione è che essi vivano nel deserto. Non è certo colpa loro: se devi accettare l’euro, devi esser preparato bene, e la distruzione dell'università, condotta anche a botte di valutazioni "oggettive", a questo serve (forse non capite perché sono così astioso con certe persone, ma vi perdono l'eventuale ristrettezza dei vostri orizzonti, che vi impedisce di afferrare i vasti contorni del danno che stanno facendo)...
Comunque, mentre a vent’anni mi difendevo (dai giornali e da Tenenbaum), ora, invece, posso dire di me quello che Arianna dice di sé: “non son quell’io che i fieri detti sciolse”. Altro che il mio fiero ed aspro “l’attualità non mi interessa!” Giornali, basi dati, blog, interviste, interventi in televisione: un’overdose di attualità...
Noise, noise, noise...

chiesa

...e di fronte al “cenere muto” di quello a cavallo, di fronte alla tomba del re di Roma, del povero aiglon, tanto assorto da non esser nemmeno risucchiato dal vuoto pneumatico delle inevitabili Ylenie e Vanesse d’ordinanza (“certo che però ne ha fatte de cose quesso...” “’na cifra...”), improvvisamente capisco perché non riesco ancora a leggere le poesie di Roberto, e perché non riesco più a sedermi di fronte al clavicembalo. Il sacrificio più grave, se pure necessario, che ho dovuto sostenere, afferrando l’asta della bandiera, è stato quello di perdere il mio silenzio interiore. Senza silenzio non ci può essere musica, non ci può essere poesia. Oltre ai famosi diciotto anni buttati, vorrei presto indietro il mio silenzio, e sono sicuro che questo vale anche per molti di voi (e molti potrei chiamarli per nome, e non sbaglierei), per tutti quelli che avrebbero preferito non occuparsi di economia, e soprattutto che l’economia non si occupasse di loro.

Vorrei sedermi su una spiaggia a leggere di un’altra guerra, combattuta in esametri, una guerra che si può leggere solo in riva al mare canuto, all’interminato mare, voi m’intendete, o magari sull’Appennino, davanti a un caminetto, a leggere cose dilettose e nove, fra una tigella e l'altra, o chiuso in chiesa davanti a un organo, una candela sul leggio, ed essere io il padrone della luce e dell’ombra, del suono e del silenzio, invece di essere schiavo di questa valanga di noise, tutto utile (e vi ringrazio) e tutto inutile (e mi compiango).
Valgono le sagge parole di Rockapasso: “Ci riposeremo quando saremo morti.”
Sì, allora indubbiamente ritroveremo il nostro silenzio. Pare incredibile, ma riuscirò a star zitto perfino io. Gliel’ho anche detto: “Il quarto brandeburghese l’ho suonato, ho detto a Fassina che mente, ora ne trito un altro paio, poi devo solo suonare il secondo brandeburghese et nunc dimittis”. E lei: “E la parte divertente per noi quando arriva?” E io: “Dopo: potrete fare quello che vi pare!”
Poi non dite che vedo sempre il bicchiere mezzo vuoto...

Il principe Andrea restava in piedi, esitando. La granata, come una enorme trottola, girava su se stessa, fumando, sul bordo della prateria, accanto a una siepe di assenzio, fra lui e l’aiutante di campo. “È veramente la morte?” pensava, guardando con un sentimento indefinibile di rimpianto il cespuglio di assenzio e quell’oggetto nero che turbinava: “Non voglio morire, amo la vita, amo la Terra!” Se lo diceva, eppure comprendeva fin troppo cosa aveva davanti agli occhi.
...
L’ultima tavola era circondata da molte persone: vi era steso un uomo forte robusto, col capo riverso all’indietro; il colore dei suoi capelli inanellati e la forma della sua testa non erano ignoti al principe Andrea. Molti infermieri si erano gettati a corpo morto su di lui, per impedirgli di muoversi. La sua gamba, bianca e grassa, era continuamente squassata da convulsioni. Tutto il suo corpo era scosso da singhiozzi violenti, che lo soffocavano. Due chirurghi, uno dei quali pallido e tremante, si occupavano dell’altra gamba. Finito il suo compito col tartaro, che coprirono col suo cappotto, il dottore dagli occhiali si frego le mani, si avvicinò al principe Andrea, gli gettò un’occhiata e si volse rapidamente:
“Spogliatelo!... A cosa diavolo state pensando?” esclamò con collera rivolgendosi a uno dei suoi assistenti.
Quando il principe Andrea si vide nelle mani dell’infermiere che, con le maniche rimboccate, gli sbottonava in fretta l’uniforme, tutti i ricordi della sua infanzia gli passarono come un lampo per la mente. Il chirurgo si chinò sulla sua ferita, l’esaminò, ed emise un sospiro profondo. Poi chiamò qualcuno, e il dolore spaventoso che il principe Andrea sentì, all’improvviso, gli fece perdere conoscenza. Quando rinvenne, dei frammenti delle sue costole fratturate erano stati estratti dalla ferita, circondata ancora da lembi di carne tagliata, e la piaga era stata medicata. Apri gli occhi, il dottore si chinò su di lui, lo baciò silenziosamente, e si allontanò senza voltarsi.
Dopo questa terribile sofferenza, provò un sentimento di benessere indicibile: i momenti più piacevoli della sua vita passarono davanti ai suoi occhi, soprattutto le ore della sua infanzia nelle quali, dopo averlo spogliato, lo mettevano nella sua culla, e la vecchia governante lo addormentava cantando. Era felice di sentirsi vivere, e tutto questo passato sembrava essere diventato presente.
I chirurghi continuavano ad agitarsi attorno al ferito che aveva creduto di riconoscere. Lo sostenevano e cercavano di calmarlo.
“Fatemela vedere, fatemela vedere” gemeva lui, sopraffatto dalla tortura.
Il principe Andrea, ascoltando queste grida, aveva, anche lui, voglia di piangere. Era perché moriva senza gloria, perché rimpiangeva la vita? Era a causa dei suoi ricordi d’infanzia? Era perché aveva anche lui sofferto così tanto che, vedendo soffrire gli altri, sentiva i propri occhi riempirsi di lacrime di tenerezza ? Mostrarono al ferito la sua gamba tagliata, che portava ancora lo stivale, tutto macchiato di sangue.
“Oh!”, esclamò, piangendo come una donna.
A un movimento del medico, il principe Andrea riconobbe in quello sventurato che singhiozzava esausto accanto a lui Anatolij Kuragin: “Come? È lui?” si disse, vedendolo sostenuto da un infermiere che gli porgeva un bicchiere d’acqua, del quale le sue labbra tremanti e enfiate non riuscivano ad afferrare il bordo. “Sì, è lui, quest’uomo che quasi mi commuove, che è legato a me da un ricordo doloroso, ma qual è questo legame?” si domandava, senza trovare risposta, e all’improvviso, come una figura di questo mondo ideale pieno di amore e purezza, Natascia si levò davanti a lui, come l’aveva vista per la prima volta a quel ballo nel 1810, col suo collo e le sue mani gracili, col suo viso radioso, intimorito, sempre pronto all’esaltazione... e il suo amore e la sua tenerezza per lei si risvegliarono, più forti e vivi che mai...
Si ricordò allora del legame che esisteva fra lui e quest’uomo, i cui occhi, arrossati e intorbiditi dalle lacrime, si erano volti verso di lui. Il principe Andrea si ricordò tutto, e una compassione affettuosa penetrò il suo cuore inondato di gioia. Non poté dominarsi, e pianse lacrime di tenerezza e pietà sull’umanità, su se stesso, sulle sue debolezze e su quelle di quello sventurato. “Sì”, si diceva “ecco la pietà, l’amore del prossimo, l’amore per quelli che ci amano come per quelli che ci detestano, quell’amore che Dio predicava in Terra, e che Maria mi insegnava, e che non capivo, allora... Ecco cosa mi restava ancora da imparare in questa esistenza, ed ecco perché rimpiango la vita!... Ma adesso, lo sento, è troppo tardi.”


(e i sottotitoli a pag. 777 dicono: non augurate il male ai vostri nemici. Inutile nasconderlo, le cose vanno chiamate col loro nome: per il modo in cui ci aggrediscono – non tanto la violenza, quanto la slealtà – alcuni nostri interlocutori non sono nostri avversari: sono - purtroppo - nostri nemici, nemici delle nostre persone, che attaccano invece di attaccare i problemi, del nostro paese, che sistematicamente denigrano e ostentatamente disprezzano, quindi nemici dei nostri figli, e nemici, più per ottusità che per cattiveria, più per incapacità di ammettere un errore che per volontà di commetterne altri, della pace e della prosperità di un intero continente. Ma qualsiasi pena auguriate loro, sappiate che la vita ne ha in serbo una più grave, alla quale potreste non aver pensato, e che magari potrebbe farvi rivedere le vostre priorità... Del resto, per lo stesso motivo per il quale mi fanno sorridere quelli che hanno la libidine del contraddittorio – un contradditorio fra un copernicano e un tolemaico nel XXI secolo, un po’ fuori tempo massimo – ritengo sia il caso di “stare sereni”, come diceva quello. I casi sono due: o sono un grande economista (ma sapete che non è così: ho solo ottimi fornitori), o porto una grande sfiga, ma comunque finora ha funzionato, e quindi è solo questione di tempo! Inutile scaldarsi. Mi scaldo io, ma è solo un espediente letterario, così, per creare un personaggio, sapete, io in realtà sono un pezzo di pane...)

(Daje a rideeeeeeeeeeeeeee........)

(...comunque, Correttore, io ti ho detto di non dirmi cosa devo fare, ma poi quando me lo dici lo faccio. Dopo essere andato a vedere qualche cimelio di Stalingrado, ho mangiato al vietnamita della rue Princesse – courtesy Gennaro Zezza – e poi son tornato all’origine del mondo. Quanti amici in quel museo! E chi se l’aspettava! C’era perfino Marcel. Il mio ideale femminile è decisamente accademico e borghese, una cosa tipo “Naissance de Venus”, un po' Second Empire, e un po' Troisième République, hai presente? PPP, che non sta per Purchasing Power Parity, ma per Pallida, Pienotta... e la terza “P” per cosa stava? Non mi ricordo... Ma non aiutarmi! Ho comunque porto il tuo riverente e intimorito omaggio alla madre di tutte le sorche, e me ne sono andato a piedi al Marais, prima a place des Vosges, poi al mio restaurant de feu preferito, dove questa volta, seguendo i saggi precetti di un giornalista col pollice opponibile, non ho prenotato: sono entrato col mio più radioso sorriso, e mi hanno messo a sedere davanti al caminetto. Certo che a furia di frequentare i politici, questi giornalisti de magnate se ne intendono...)

(AB a XY 12/3/2013 19:48 “Bloccato a Parigi dalla tormenta. Sfiga!” XY a AB 20:15 “È il momento del bracione consolatorio al Marais. Daje...” AB a XY: “No, me so’ fatto un couscous perché dopo due giorni in Belgio... Ma mi sa che rimango anche domani per il bracione. Problema: devi prenotarlo una settimana prima...” XY a AB: “Pessimista. Io mi sono seduto una domenica a pranzo a luglio senza prenotare” AB a XY 20:30: “Ma io mica sono romano come te! Noi non abbiamo la faccia come il culo. Accetto il tuo consiglio comunque. Il mio charme di cucciolo francofono en manque d’affection potrebbe fare il miracolo. E domani me ne vado al Musée d’Orsay a vedere la grande sorca (lei m’intende). XY a AB: “Mi hanno bandito da quei saloni. Non hanno capito bene la faccenda della produzione per l’uso...” AB a XY: “Per inciso: ma perché quando parlo di pollice opponibile, voi giornalisti pensate sempre alle seghe? Anche quello di ieri sera, il corrispondente dell’Unità.” XY a AB: “È un caso. Siamo due pipparoli, ma non puoi inferire che l’intera categoria disperda il suo seme. Per inciso: io non sono romano, sono dell’agro redento (quanto alla faccia come il culo, forse però...), da dove viene, tornando a Courbet, quella sorca della Santarelli”
AB a XY 13/3/2013 13:14: “La sorca era in eccesso di domanda. Una frotta di Debborehhh dell’agro redento impreziosiva la fila. Ho ripiegato su les Invalides, dove c’è sempre qualcosa da imparare.” XY a AB: “Il barocco e i cannoni, le vere radici dell’Europa” AB a XY: “Ma che dici, a s. Lorenzo quanto mo ‘o mettono un bel sarcofago de porfido?” XY a AB: “Dipende, novo o usato? Se fanno affari coi morti scaduti sto periodo”
AB a XY 20:06: “Me sei piaciuto cor pensiero positivo: sto seduto a capotavola vista bracione. Stasera ti dedico un post” XY a AB: “Il bracione del Marais è come il pejote: è lui a trovare te quando sei pronto” AB a XY: “Hai letto pure Castaneda?” XY a AB: “No, ho preso il pejote” AB a XY: “Questi stanno avanti: macinano il pepe col macinino da caffè. Un capital deepening da paura” XY a AB: “Er papa è argentino, daje co la svalutazione” AB a XY: “Da quanto?” XY a AB: “Un minuto.” AB a XY: “Allora stasera non pubblico, sarebbe sprecato!” XY a AB: “Francesco I” AB a XY: “Giura? Ma è un nome da re!” XY a AB: “Certo! È gesuita, gli avrà fatto crede che era ‘na roba de poverello de Assisi, ma tra un po’ tira fuori il trono. Godite la cena e pensa che mentre Roma è caput mundi, tu stai alla provincia dell’Impero”

Cioè: io non ce l’ho coi giornalisti: vedete: ci parlo pure, e, incredibile dictu, ogni tanto mi rispondono...)
(sì, amore, ci torniamo presto insieme. E grazie. Ti ringraziano tutti, with the possible exception of Zonin...)
(ah, sì, e per chiudere, last but not least, quando vivi nel mondo dei libri senza figure, ma anche del contrappunto senza quinte e senza ottave, capisci che per quanto tu possa scrivere bene, ci sarà sempre stato qualcuno che scriveva meglio di te. E non c’è niente di meglio di questa consapevolezza per aiutarti a capire quanto sia futile misurarselo. Dispersit superbos...)
(non era l’ultima cosa: l’ultima è questa: spero che le anime belle siano rassicurate su qual è e quale è sempre dichiaratamente stata l’etica di questo blog. È quella dei migliori libri senza figure, ci avete fatto caso? Ma ovviamente, essendo esse persone dalla limitata capacità di comprensione, non possiamo aspettarci che questi libri li abbiano capiti, né che capiscano il sottoscritto, il quale cordialmente le invita ad approvvigionarsi altrove. Si può dire "approvvigionarsi"? O è una parolaccia?)

(dedicato a chi preferisce lasciare ai propri figli un esempio anziché un sogno)

http://goofynomics.blogspot.it/2013/03/il-...o-la-morte.html

Edited by Arianna… - 16/3/2013, 15:36
 
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