Economia e Potere

Requiem per l'insegnamento, [di Alfredo Cosco]

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view post Posted on 6/3/2013, 02:16     +1   -1
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Mostrami i tuoi eroi,

Le figurine che porti nella camicia.

Mentre faceva lezione i ragazzi erano pochi. Non esattamente attenti. Ma neanche distratti.

In quegli anni le scuole non erano mai piene. L’ultima direttiva, risalente a dieci anni prima, aveva annullato l’obbligatorietà scolastica.
Qualcuno veniva, i genitori erano duri a perdere le vecchie abitudini, e i ragazzi sentivano ancora un vago richiamo, per quei luoghi di cui i loro nonni e i loro genitori avevano sempre parlato.

La flessione comunque era stata radicale. E chi veniva, sapeva che poteva da un momento all’altro mollare tutto. Gli insegnanti erano un misto di vecchie glorie che avrebbero mai potuto fare altro e giovani idealisti perplessi.
Abitavano cittadelle fantasma. Queste erano le scuole.
Lo Stato, o meglio, Il Dipartimento Italia non finanziava più l’istruzione da decenni. Queste faccende erano state delegate alle macroregioni interne, che però disponevano di pochissimo denaro, e quello serviva ad altro. Si limitavano ad una elemosina in un fondo chiamato SUSTINETUM , che doveva essere in gran parte implementato da risorse private. In pratica le scuole locali campavano soprattutto con i soldi di privati locali, che non sarebbero mai bastati. Cosicché presero corpo forme di mutuo aiuto. Qualcuno portava agli insegnanti cibo, qualcuno rattoppava i vestiti, qualcuno gli faceva un lavoro in casa.

Per dormire, gli insegnanti dormivano nelle scuole. Questo era stato il regalo di commiato del Governo Draghi III, l’ultimo governo prima di decretare il decesso dello Stato nazione, diventato Dipartimento della Federazione Europea. L’affidamento perpetuo della gestione degli edifici scolastici. Le strutture erano degli insegnanti, e le spese per luce e gas sarebbero state garantite, almeno fino a che quella struttura non fosse diventata un museo, dove corridoi aprivano a porte vuote.

Che cosa fossero ancora gli insegnanti era arduo dirlo. Nelle oziose rubriche dei giornali, opinioni difformi si scervellavano su questi strani esseri, che abitavano grandi edifici, come fossero una loro forma di vita interna. C’era chi li definiva una setta, per altri un branco di allucinati, per altri ancora stavano diventando un nuovo ordine monastico.
Il bello è che neanche loro sapevano più esattamente cosa fossero diventati.

Dimenticavo… il reclutamento. Premesso che c’era poco da reclutare, dato che le scuole certo non scoppiettavano di vita, e molte aule restavano imbambolate nel vuoto come tasselli di museo. E pur tuttavia, a macchia di leopardo, il reclutamento avveniva ancora, di tanto in tanto, singole unità. Erano sempre gli stessi insegnanti a reclutare i nuovi. Per sostituire chi passava a miglior vita, o sbiellava con la testa. L’equilibrio mentale andava a rotoli facilmente in quei tempi. Non sapere qual era il proprio ruolo, cercare un Nome in mezzo alle ombre. Quali erano le chiavi? Cambiavano forma a seconda di chi li guardava. Per alcuni nuovi monaci, per altri reduci da catacomba. Ma quale era la forma con cui guardare se stessi? Con che forza guardare di nuovo quei ragazzi, che venivano mandati o si ostinavano ad andare.
E non mancavano i Remittenti, quelli che gettavano la spugna, e tornavano alla vita “normale”. Era un po’ come essere spretati.

Perché sì, forse per resistere, ci voleva una sorta di credenza. Gli insegnanti avevano creato lembi di una mitologia che li tenesse uniti. E tutto ciò che loro facevano veniva messo in un’unica parola, il Mandato. Cominciava a circolare un giuramento. In alcune scuole già lo si pronunciava, con varianti, ogni anno. In altre ancora si era refrattari. E poi si riunivano di notte, nelle aule magne, per mangiare insieme, e farsi forza a vicenda, o sentirsi meno folli, a vedersi specchiati, nella faccia degli altri.

Come si potrà immaginare, ogni sorta di tipo strano proliferava in questo nuovo territorio che erano ormai le scuole. Esaltati, poeti, profeti, riformatori religiosi. O anche cinici e disincantati bohemien.
Forse era anche questo a spingere una parte dei ragazzi che ancora frequentavano le scuole. Il fascino di un mondo strambo. L’attrazione che da sempre i giovani hanno verso i fantasmi. Il piacere di ritrovarsi in queste vecchi edifici, dove qualcuno declamava Dante, qualcun altro ti rintronava di fisica quantistica, altri ancora ti raccontavano delle storie delle epoche e delle città del vasto mondo.
Talvolta divertivano gli occhi spiritati degli ispirati, le cui lezioni erano monologhi tra l’assoluto e il deserto, tra Shakespeare e la ghiaia sabbiosa, tra le colline e la notte. E altri ancora cercavano una strana alleanza con chi potesse ancora capirli, e suscitare in loro le ali per qualche vero sogno. E i pochi che potevano capirli... li cercavano tra questa accozzaglia di reduci, tra questa congrega di sognatori, tra questi monasteri di nuovi monaci, tra questa sbaldraccata setta… gli insegnanti.

Ah… dimenticavo un loro vezzo. Cambiarsi il nome. Un nome da battaglia o d’arte per ognuno. Lascio immaginare cosa ne poteva uscire.

Varrazio, al secolo Paolo Gerani, era nella terza H –almeno così si chiamava l’aula, perché l’ordine rigido e progressivo delle classi si era anch’esso smarrrito. Era il 4 aprile. Il suo campo, la storia. Mentre facce di ragazzi appollaiati alla bell’e meglio per l’aula lo scrutavano, con quell’aria tra lo stupito e il perplesso che era diventata la faccia tipica di chi frequentava le scuole, un po’ come quando si scruta una bestia rara, Varrazio teneva fede alla sua tecnica.
“Immagina”, si diceva ogni giorno “immagina che ciò che hai da dire è importante, immagina che può cambiare qualcosa, immagina che ogni tua parola debba lasciare il segno, immagina che ognuno di questi ragazzi possa capire, sentire. Credici, credici a tutte le tue parole. Non essere un fantasma. Non recitare. Non diventare una macchinetta. Non pensare a dove cazzo sei, a chi cazzo sei, a dove cazzo andrai. Non pensare ora se domani tutto questo sarà un cimitero, o l’inizio di qualcosa d’altro. Afferra il senso anche se non lo vedi. Esiste solo questa lezione, ancora strappata alle spirali del tempo, in questa scuola che ancora non cade, in questa aula e nei suoi armadietti con catenaccio e i suoi poster di miti ormai dimenticati. Esistono queste facce che ancora ti scrutano. Credi che qualcosa vi lega. Legati il senso alle ossa. Parla come se.. come se… potessi accendere un fuoco…”.

Se foste passati vicino alla finestra... captare... mozziconi di frasi...

“Le idi di marzo... Bruto e Cassio… Antonio e Ottaviano… Vedete ragazzi, in quel momento era chiaro che…”
 
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